di Sandro CaliceHUNGER
di Steve McQueen, Gran Bretagna 2008, drammatico (BIM)
Michael Fassbender, Liam Cunningham, Stuart Graham, Liam McMahon, Laine Megaw, Lalor Roddy, Brian Milligan, Helena Bereen, Larry Cowan.
Prima di Guantanamo, prima di Abu Graib, prima del nostro Bolzaneto, e purtroppo insieme a cento altre storie di violenza in carcere che non conosciamo e che ci sono da sempre, c’è stato l’H-Block della prigione di Long Kesh, soprannominata The Maze (il labirinto), nell’Irlanda del Nord, dove all’inizio degli anni ’80 erano detenuti i militanti dell’Ira e il loro leader Bobby Sands. Questa è la fine della sua storia.
1981. Raymond Lohan lavora come agente penitenziario a Long Kesh, marito noioso ma inappuntabile e figlio premuroso di una madre malata fuori, feroce aguzzino dentro il carcere. Sono i giorni della “protesta delle coperte” e della “protesta dello sporco”, i detenuti dell’Ira vogliono essere riconosciuti come prigionieri politici dal governo di una inflessibile Thatcher, rifiutando di indossare la divisa del carcere e imbrattando le celle con cibo ed escrementi. Un inferno. La reazione delle guardie è la tortura, psicologica e fisica. Vengono vestiti e ripuliti solo in occasione delle visite, quando trovano i modi più diversi per scambiare messaggi con l’esterno, e tutto va consegnato a Bobby Sands, il leader del blocco. La protesta sembra aver successo quando il direttore li convince ad accettare abiti civili. Ma è una presa in giro, l’ultima. Sands comincerà insieme ad altri detenuti uno sciopero della fame che durerà sessantasei lunghissimi giorni. A un amico prete che aveva provato a farlo desistere, dirà: “La libertà significa tutto per me. Togliermi la vita non è solo l'unica cosa che posso fare, è anche la sola cosa giusta da fare”.
Opera prima (premiata a Cannes, a Venezia, a Toronto e ai Bafta) del regista recentemente diventato famoso per “Shame”, “Hunger” è più un’esperienza sensoriale che un film storico e politico. McQueen attinge a piene mani alla sua formazione di scultore e fotografo e ci mostra uomini e corpi letteralmente e metaforicamente spogliati, del loro ruolo e della loro umanità. Non intende dare giudizi, capire se gli agenti siano aguzzini o esseri umani impauriti, e se i detenuti siano terroristi o martiri, o entrambi entrambe le cose. Quella è un’elaborazione che tocca allo spettatore, eventualmente. Lui si affida (e ci affida) alle immagini e al silenzio. E divide il film in tre parti: una iniziale, con l’abbrutimento e le brutalità; quella centrale, un lungo piano sequenza di 20 minuti, con lo scontro di parole e idee tra Sands e il prete; quella finale, dove le parole non servono (o non bastano), della terribile e inesorabile scarnificazione di un bravissimo Sands/Fassbender. E ogni inquadratura, ogni dettaglio è pesato e “disegnato” per vivere, si intuisce, di vita propria. Un’operazione fortemente simbolica che invita a riflettere e a fare pienamente i conti con la nostra storia.
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