Parla il segretario della Cgil


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Camusso: ‘Più welfare per le donne’

Maggiori servizi significherebbero più posti di lavoro susanna_camusso_pp_296

di Monica Moretti e Roberta Balzotti

Con Fornero e Marcegaglia “non c’è chissà quale complicità” in quanto donne, e “per fortuna”. Ma “dopo tanti anni di governo maschile, che ci hanno dimostrato che un’infrastruttura è un’autostrada o una ferrovia un ponte”, “a tre donne che discutono di lavoro viene in mente che anche un asilo è un’infrastruttura”. Le donne “hanno la capacità di collegare e di rendere concrete le cose”.

Susanna Camusso, primo segretario generale donna della Cgil, con oltre 5 milioni e mezzo di iscritti il più grande sindacato italiano, trascorre l’8 marzo a New York, negli Stati Uniti, dove partecipa alla commissione Onu sullo status delle donne. Prima di partire, in attesa che il governo trovi i soldi per gli ammortizzatori sociali e incontri, lunedì, le parti sociali per la riforma del lavoro, ha riunito a Roma tutti i segretari delle Camere del lavoro, tra i quali molte donne, per capire gli umori sul territorio. Perché la “crisi non è affatto superata” e “continuerà a mordere nei prossimi mesi” e “c’è un problema di allargamento e di crescita di tutte le politiche sociali”.

Noi l’abbiamo intervistata mentre dal cinema Capranica, si spostava per tornare in auto alla sede della Cgil, in corso Italia.

Se il tasso di occupazione femminile passasse dall’attuale 46% al 60% il Pil italiano crescerebbe del 7%. Le agevolazioni messe in campo dal governo, nel decreto “Salva Italia”, per l’assunzione delle donne sono sufficienti a raggiungere questo traguardo?
No. Inoltre, essendo delle incentivazioni, come noto, possono riguardare solo delle aree territoriali e non l’insieme del Paese.

In Italia quando si parla di crescita dell’occupazione bisogna parlare di creazione di nuovi posti di lavoro: il welfare, ad esempio, è uno strumento formidabile per creare lavoro. Ma da noi, a differenza del Nord Europa, si fa fatica ad accettare l’idea che un Paese è fondato sui cittadini, come persone, e non sulla famiglia. E quindi ad accettare che il welfare non va sostituito con il lavoro familiare, perché è evidente che quel lavoro familiare poi ricade tutto sulle donne. Per questo nel Nord Europa, l’Ue ha iniziato a discutere di paternità obbligatoria, una rivoluzione, “obbligata” se non si vuole fare del lavoro delle donne un lavoro transitorio, nei soli periodi di non maternità.

Il secondo elemento che bisogna mettere in campo per aumentare l’occupazione femminile è contenere o impedire tutti gli strumenti di discriminazione. Con la crisi il tasso di disoccupazione femminile, che era già basso, è sceso ulteriormente e un grande peso hanno avuto 800mila dimissioni volontarie dovute alla cancellazione delle legge contro le dimissioni in bianco. Finché c’è un pregiudizio nei confronti del lavoro delle donne è difficile pensare a una condizione sociale che fa del lavoro femminile un moltiplicatore dei altre risorse.

La riforma del lavoro, che state discutendo al tavolo governo-parti sociali, influirà anche sulla condizione lavorativa delle donne?
Una riforma come noi la vorremmo, che interviene sulla precarietà e sull’annullamento delle sue forme più insopportabili, guarda molto alle donne. Ad esempio quando parliamo di cancellazione dell’associazione in partecipazione, usata nelle reti franchising della grande distribuzione, parliamo di lavoro femminile. Cancellarla vorrebbe dire per moltissime donne passare dalle reti di precarietà e instabilità ad un condizione di lavoro. Così come, se si riconosce l’allargamento degli ammortizzatori sociali e delle tutele, parliamo anche di lavoratrici, perché nel mondo della precarietà, spesso le lavoratrici sono la maggioranza. E di nuovo, parliamo di lavoratrici, quando chiediamo modifiche alle pensioni perché il fenomeno delle persone che non riescono a rientrare nel mondo del lavoro a 50-55-60 anni ha un’aggravante maggiore per le donne.

Le donne guadagnano meno degli uomini (la media Ue è del 16,5% circa). Perché? Cosa fare per superare il gap salariale, che espone le donne, più degli uomini, al rischio povertà?
Questa è una stagione in cui purtroppo le retribuzioni diminuiscono il loro potere d’acquisto a causa di una tassazione che continua a gravare sul lavoro, e all’aumento delle accise e dell’Iva. C’è un grande problema dei salari e della loro proporzione. All’interno di questo contesto, si inserisce il gap salariale uomo-donna.

Mentre sul piano formale e della contrattazione la parità salariale è stata conquistata, non riusciamo a scalfire le politiche di discriminazione. Le imprese unilateralmente danno alle donne pochi riconoscimenti come superminimi, bonus, aumenti di merito, di qui si crea la discriminazione. Nella determinazione dei percorsi professionali e dei riconoscimenti, esiste ancora un pregiudizio: da un lato le imprese pensano che il merito si fondi non sulle competenze ma su quanto tempo sei disponibile, dall’altro ritengono che le donne hanno altro a cui pensare: alla famiglia, ai figli….

Forse il vero modo per chiudere la forbice della parità salariale è il riconoscimento della maternità e della paternità obbligatoria che determini una parità nelle responsabilità familiari e quindi elimini l’idea che è sempre e solo la lavoratrice a essere assente perché guarda la famiglia.

Cosa può fare il sindacato per stroncare questo pregiudizio e favorire la conciliazione tempi di vita e di lavoro?
Quando abbiamo fatto l’accordo del 28 giugno (sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil e Confindustria, ndr), discusso dei modelli contrattuali, e detto che bisogna ricostruire gli inquadramenti professionali legandoli alle capacità e alla realtà, avevamo in mente anche questo. Cioè fare politiche concrete che vadano alle lavoratrici e ai lavoratori.

Ha ancora senso festeggiare l’8 marzo?
L’8 marzo non è solo una festa: dal lavoro si parte e si ricostruisce identità, prospettiva, autonomia. L’8 marzo non nasce per gentile concessione degli uomini ma su una straordinaria storia di lavoro e di una tragedia del lavoro (quella delle 129 donne morte a New York nel 1911 nel rogo della camiceria dove lavoravano segregate e sfruttate, ndr).

E poi, se in qualche momento si era pensato che la parità era andata molto avanti, e non c’era quindi più bisogno di ricordare l’8 marzo, la storia degli anni recenti ci dice che semmai siamo arretrate dal punto di vista del giudizio, del riconoscimento, del rispetto. Quindi ben venga l’8 marzo e che gli sia dia pieno significato.