I film del week end


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Cesare deve morire

di Sandro Calice

CESARE DEVE MORIRE

di Paolo e Vittorio Taviani, Italia 2012, drammatico (Sacher)
Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vittorio Parrella, Rosario Majorana, Vincenzo Gallo, Gennaro Solito, Francesco Carusone, Fabio Rizzuto, Maurilio Giaffreda
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Questo film è la dimostrazione di quanto possa la potenza delle parole, prima della bravura dei registi, prima dell’intensità dei protagonisti.

Paolo e Vittorio Taviani, Palma d’Oro a Cannes nel 1977 per “Padre padrone”, Leone d’Oro alla Carriera nel 1986, Orso d’Oro a Berlino con “Cesare deve morire, hanno scoperto i detenuti-attori della sezione di Alta Sicurezza di Rebibbia grazie a una loro amica. Li hanno visti recitare Dante, guidati dal loro regista interno, Fabio Cavalli, che negli ultimi anni ha coinvolto nell’attività teatrale circa cento reclusi e portato nel carcere 22mila spettatori. E’ stata una folgorazione. Il “Giulio Cesare” di Shakespeare è parso ai due registi il testo perfetto per quegli uomini e quella situazione. E hanno avuto ragione.

Il film (perfavore non chiamatela docu-fiction) si apre col pubblico che applaude il finale della tragedia di Shakespeare e i detenuti felici della loro fatica, prima di rientrare nelle celle. Poi il colore, più a rischio documentario, dicono i Taviani, cede il passo a un bianco e nero sporco, livido a tratti, per raccontarci i sei mesi di lavoro dietro quello spettacolo. A partire dai provini, tutti rigorosamente veri. Come veri sono i protagonisti, alcuni condannati al “fine pena mai” e tutti ancora in carcere tranne Salvatore Striano (Bruto), che ora fa l’attore e ha recitato anche in Gomorra, e Fabio Rizzuto (Stratone). E vediamo il testo della tragedia impadronirsi un pezzo alla volta degli attori, del loro tempo, dei loro spazi, scoperchiando brandelli di vita vera e attingendo al loro passato, ai loro dolori, alle loro colpe, per diventare teatro. Anche per questo i registi hanno voluto che i detenuti recitassero ognuno nel proprio dialetto, riuscendo a non sottrarre nemmeno un grammo di potenza, anzi!, a uno Shakespeare declinato in napoletano, siciliano, romanesco. Chè di amicizia, tradimento, assassinio, di uomini d’onore, di prezzo del potere e della verità parla il “Giulio Cesare”, chè dello stesso universo di emozioni e pensieri vivono quei detenuti o, come si li definisce uno di loro, quei “guardatori di soffitti”. Persone che, dice Vittorio Taviani, “nei loro occhi, nel loro agire e reagire, portavano una memoria drammatica, un passato colpevole, che li ha resi bravi attori in maniera diversa dal solito. In loro, l'umanità si è aggiunta al talento”.

I Taviani, naturalmente, non si limitano a “riprendere”, ma smontano e rimontano parole e facce, cercando , soprattutto nei momenti in cui i detenuti recitano se stessi, di ricordarsi (e ricordarci) sempre che quelli sono uomini, prima che colpevoli di reati. Non c’è indulgenza, chi sono quegli uomini è detto con chiarezza, ma il valore dell’arte, l’importanza della cultura (e senza Shakespeare sarebbe un altro film), la necessità di offrire a queste persone qualcosa d’altro e di diverso da pensare e di cui discutere, sono pensieri ai quali non ci si può onestamente sottrarre. “Quando recito mi sembra di potermi perdonare”, dice uno dei detenuti. E’ un inizio.

s.calice@rai.it

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