di Maurizio IorioThe Maccabees
Given to the wild (Fiction)
Giovani, bravi e carini. Tre buoni atout per arrivare al successo salendo i gradini a due a due senza passare dalla scala di servizio. Non è un caso che i Maccabees, da South London, siano in testa alle classifiche inglesi con il loro terzo album, “Given to be wild”, al quale hanno dato forma con un lavoro di cesello in studio durato quasi un anno. Perché la musica di questi cinque giovanotti, ben lungi dal classico impatto rude del cosiddetto indie-rock, nel quale sono stati catalogati, è stata costruita meticolosamente, sovrapponendo l’elegante lezione dei primi Roxy Music, la vocalità eterea di Kate Bush, lo sguardo cinematico-futuribile del Bowie di “Space Oddity”, l’irruenza degli Stone Roses. Non è un album facile, “Given to the wild”, nonostante qualche ruffianeria pop di maniera. E’ un lavoro cinematico, una perfetta colonna sonora per un film ancora da girare, per ammissione dello stesso leader, Orlando Weeks (e potere star sicuri che verrà saccheggiato dai film-makers), evoca atmosfere oniriche e paesaggi in campo lungo, quelli dall’orizzonte sconfinato, lasciando spesso il discorso sospeso nel vuoto, e che ognuno tragga la conclusione che vuole. I Maccabees di fatto hanno creato un suono, una musica per il cervello più che per il cuore, impegnativi e poco leggiadri, ma perfetti per ogni personale rassegna d’essai. Non è un caso che il suono sia stato elaborato da uno come Bruno Ellingham, già al fianco dei Massive Attack. Lana Del Rey
Born To Die (Polydor)
Bruce Springsteen era nato per correre, gli Steppenwoldf per essere selvaggi, Patrick Hernandez per essere vivo, Lana Del Ley, invece, è nata per morire. “Born to die” è il fenomeno discografico del 2012, nato sul web (come molti, ormai) e poi catapultato nel mondo reale. Lei si chiama Elisabeth Grant, in arte Lana Del Rey, 25 anni, newyorkese, padre miliardario e bellezza da pupa del gangster. Con tanto di rifacimenti al silicone, sui quali i magazine del gossip, inglesi (adesso lei vive a Londra), si sono scatenati. Ma il silicone, sempre ammesso che ci sia, non canta. Ergo non ci interessa. Lei, invece, canta come una dark lady degli anni 60’, e “Born to die” è perfetto per una versione aggiornata di Twin Peaks. La ragazza ci sa fare, è furbetta al punto giusto, cattura l’ascolto ed evoca i bassi instinti, quelli torbidi alla Laura Palmer, che piacciono ai maschietti e intrigano le femminucce. Al di là della lucida patina da marketing (bisogna pur vendere!), questo album è un campionario di bella musica, in bilico fra sensualità e decadenza, fra il pop di Madonna e il rock cimiteriale di Marianne Faithfull, fra il trip-hop dei Portisdhead e il profondo rosso di Gaetano Badalamenti. Lana del Rey canta con la voluttà di Jessica Rabbitt, e con quel viso da Lolita maledetta versione sexy porterebbe alla rovina qualunque uomo.