A dispetto delle cronache giornaliere sulla crisi economica, sembra che l’Europa sia piuttosto unita sul fronte della ricerca spaziale. E’ solo apparenza?
No, invece è una conferma del valore che viene attribuito in campo internazionale all’aerospazio in generale. Lo sforzo che l’Europa sta compiendo anche in periodo di crisi è notevole. Sicuramente, a livello di ricerca e sviluppo, in ambito Esa, che mantiene inalterati i suoi circa 3 miliardi all’anno, da destinare agli Stati membri per sviluppare l’attività spaziale, ma ancora di più si sta vedendo nel programma pluriennale dell’Unione europea, programma che prevede dal 2014 al 2020 di arrivare a spendere, con il progetto “Horizon 2020”, con “Galileo” e forse anche con “GMES”( Global Monitoring for Enviroment and Security, un'iniziativa dell’ESA e della Commissione UE creata nel 2001 durante l'incontro di Goteborg per dare all’Unione Europea, entro il 2008, la capacità di agire autonomamente nel settore della sicurezza e dell'ambiente tramite le rilevazioni satellitari; ndr), cifre superiore ai 10 miliardi. Quindi è uno sforzo che tutta l’Europa sta compiendo, credendo fermamente che questo sia un settore trainante per l’occupazione.
Cifre da capogiro, un po’dissonanti rispetto all’attuale crisi, non crede?
Il mondo in questo momento in effetti sta vivendo più che altro una crisi finanziaria, da cui si esce soltanto con l’innovazione. E l’innovazione che sembra essere più a portata di mano, in questa nostra storia, come ASI, che dura ormai da oltre 50 anni, è proprio quella dello Spazio. Quindi, lo Spazio è un progetto di lungo termine.
Chi vuole utilizzare un lanciatore deve pagare 30 milioni di euro. Come vengono impiegati questi introiti?
Il costo dell’utente è il mantenimento economico in un mercato internazionale che è largamente sovvenzionato dagli Stati per garantire l’autonomia. Intendo dire che per gli Stati a livello mondiale, dalla Russia agli Stati Uniti, alla Cina, l’accesso allo Spazio è così importante da essere finanziato dagli Stati stessi e la conquista del mercato commerciale comporta per questi Stati una sorta di “dumping” (vendono prodotti all’estero a prezzi inferiori a quelli che praticherebbero nel loro mercato, ndr). L’Europa, se vuole essere presente, come è presente, deve trovare al suo interno risorse per competere ad armi pari e quindi finanziare in quota parte i lanci. Il finanziamento a livello europeo è nell’ordine di 100-200 milioni l’anno. Numeri questi compatibili con un sistema che muove attività per molti miliardi di euro all’anno.
Non crede però che stia diventando tutto un po’ troppo business?
Il discorso è che se si pensa di mantenere un gruppo di ingegneri di operatori in maniera efficiente, e si deve fare per garantire un certo standard di qualità, o si ragiona come i cinesi, che lanciano 26-30 satelliti all’anno, o invece, come l’Europa, che lancia 1, 2, 3 satelliti all’anno, ed è chiaro dunque che è costretta a rivolgersi al mercato commerciale. Non si può mantenere una base di lancio in Guyana, e lanciatori come Vega, senza avere un’attività continua. Ciò vuol dire che almeno 6-9 lanci all’anno debbono essere garantiti. E se non vi sono 6-9 richieste istituzionali, bisogna offrire di lanciare i satelliti commerciali. Che, chiarisco, non sono tanto una “scusa” per l’attività, quanto la necessità perché i team siano costantemente impiegati e sviluppino buone capacità dal punto di vista della qualità del loro lavoro.
L’ASI ha una partecipazione del 30% nella società “prime contractor” per il lanciatore Vega. L’ASI è un’Agenzia statale. Come avviene questo tipo di partecipazione in società che sviluppano tecnologie per lo Spazio?
Alla base c’è il problema della proprietà intellettuale., che non viene mantenuta dall’Agenzia spaziale, ma va al “prime” industriale, in base a quanto stabilito dall’ESA.. Quindi, la presenza di ASI, in questo caso, che non comporta un costo, né tantomeno la presenza di uomini dell’ASI nel gruppo di gestione, consente all’Agenzia di conservare la visione almeno della proprietà intellettuale, nonché una quota parte di essa. Ad esempio, il lanciatore Arianne 5, in Francia, ha avuto come “prime contractor” direttamente il CNES, quindi l’Agenzia di Stato, per mantenere tutta la proprietà intellettuale. Quindi, l’esigenza di mantenere la proprietà intellettuale nasce dal fatto che l’ESA, come unica Agenzia europea, assegna il diritto all’industria. Questo fa sì che i soldi dell’Agenzia italiana, veicolati via ESA verso l’industria, avrebbero come conseguenza che l’Agenzia italiana non manterrebbe alcuna proprietà intellettuale, a meno di non essere anche dalla parte industriale. Dunque la partecipazione è giustificata da questo vincolo legislativo, che sta alla base dello statuto dell’Esa.
Ma c’è un ritorno per l’ESA in termini di diritto di sfruttamento dell’”opera”?
L’ESA ha il diritto di disporre della proprietà intellettuale nel caso in cui scompaia il “prime” industriale, riassegnando ciò che è stato scoperto a qualcun altro. L’ESA ha lo scopo di mantenere la continuità dell’investimento. L’ASI ha l’obiettivo di non perderlo. E lei capisce che in una situazione in cui l’industria italiana tende a cessare di esser esclusivamente italiana, conservare la proprietà intellettuale degli investimenti che l’ASI ha fatto è un dovere.
(Egi)