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I grandi cantano Dylan per Amnesty

Settantasei canzoni rilette in tutte le salse

di Maurizio Iorio

Artisti vari
'Chimes of freedom – Songs of Bob Dylan' (Universal)

Far digerire Dylan alle nuove generazioni è come provare a rifilare Lady Gaga a quelle vecchie. Per entrambe ci vorrebbe l’imbuto e l’idraulico liquido. Ma questo monumentale cofanetto (4 cd), con settantasei canzoni del menestrello di Duluth rilette da un coacervo di artisti che spaziano dalla diciannovenne Miley Cyrus all’immortale novantaduenne Pete Seeger, potrebbe essere il chiavistello per scardinare una resistenza culturale figlia dei “mala tempora” che “currunt”. Nel gennaio del 1961 Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan, iniziava la sua carriera suonando dei fumosi club del Greenwich Village di New York. A qualche mese di distanza, al di là dell’Oceano, l’avvocato inglese Peter Benenson lanciava a Londra la campagna che avrebbe dato vita ad Amnesty International. Cinquant’anni di carriera per entrambi, celebrati con la summa artistica dylaniana “revisited”, come la famosa Highway 61. Il ricavato delle vendite sarà devoluto ad Amnesty. L’opera, dicevamo, è monumentale, e il pout-pourry di artisti che vi prende parte è un melting pot di razze, lingue, età, colori della pelle, provenienza geografica, nonché stili musicali (rock, folk, jazz, blues, pop, hardcore, hip hop).

Dylan è stato il cantore di una generazione, quella degli anni ’60, che aveva trovato nella musica il mezzo espressivo universale per diffondere le proprie utopie, più ribellistiche che rivoluzionarie, ma comunque sempre anti-sistema. E non è un caso che il titolo della compilation sia preso da quella Chimes of Freedom (“Le campane della libertà”) con cui lo stesso Dylan chiude la scaletta, e che chiudeva, cantata in coro da Springsteen, Sting, Peter Gabriel e Tracy Chapman, i concerti del tour mondiale di Amnesty dell’88. Quanto alla scaletta, per l’appunto, alle molte chicche si alternano una serie di svarioni, che faranno inorridire i puristi. Ma tanto di cappello al Man in Black Jonnhy Cash (One too many mornings), a Mark Knopfler sempre più folk (Restless farewell), a Paul Rodgers e Nils Lofgren (Abandoned love), al vecchio bluesman Eric Burdon (Gotta serve somebody), alla rockeuse Lucinda Williams (Tryin’ to get to Heaven), al commovente Pete Seeger (Forever young, con coro di bambini a contorno). E poi Costello, Sting, Lenny Kravitz, Brian Ferry, Patty Smith, Marianne Faithfull, Dave Mattews, Diana Krall, Sinead O’ Connor. Ce n’è per tutti i gusti. La sezione etnica schiera Ziggy Marley, l’africana Angelique Kidjo, l’israeliano Oren Larie, il somalo K’naan. Se la cavano alla grande le nuova dive del pop, Adele (Make my feel my love) e Ke$ha (Don’t think twice, it’s allright). Manca Springsteen, ed è un’assenza pesante. Ma nel complesso l’operazione didattico-umanitaria funziona. E rimpinguerà le casse di Amnesty.