di Rodolfo Fellini
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Il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, che per 33 anni ha retto le sorti del Paese col pugno di ferro, è da domenica scorsa negli Stati Uniti, dopo aver firmato un’intesa in cui rinuncia al potere. Ufficialmente, Saleh è andato in America per curarsi le ferite ricevute in un tentativo di assassinio, perpetrato ai suoi danni lo scorso giugno. Ma il suo discorso di congedo, trasmesso prima della partenza ma dopo aver ottenuto l'immunità, avvalora la tesi del viaggio senza ritorno che molti propugnano. Fonti diplomatiche non confermate sostengono peraltro che Saleh si sia visto negare una richiesta di asilo fatta pervenire al sultanato dell'Oman, dove ha fatto una breve tappa durante il viaggio che dallo Yemen lo ha condotto negli Usa.
"Chiedo scusa ai miei concittadini per gli errori che ho potuto commettere nei 33 anni trascorsi a governare il Paese", ha detto Saleh domenica sera alla tv. Nel suo "saluto al popolo yemenita", l'uomo forte di Sanaa ha tuttavia promesso che tornerà in patria, in veste di leader del Cpg, il suo partito. Gli oppositori hanno accolto il discorso di Saleh con scetticismo, e non escludono che si tratti di un'ennesima mossa strategica di un leader che non ha ancora lasciato definitivamente il potere. Il 21 febbraio dovrebbe essere formalizzata la nomina a presidente di Abd Rabbo Mansour Hadi, l'attuale vice di Saleh. La prudenza continua a farla da padrona,poiché un vuoto di potere rischia di gettare il Paese nel caos più assoluto.Già nella seconda metà del 2011, mentre Saleh si curava in Arabia Saudita, si erano avvicendate voci e smentite su un suo esilio volontario. Ma il presidente era poi tornato ad occupare la sua poltrona,esacerbando la protesta popolare. La svolta è arrivata lo scorso novembre quando, in cambio dell’immunità per sé e per la sua famiglia, Saleh ha accettato di cedere i poteri al suo vice. L'attuale facente funzioni è gradito a tutti i partiti, anche se la piazza lo giudica troppo vicino al suo predecessore.
L'intesa per uscire dalla dittatura era stata messa a punto già nel marzo 2011 dai 6 Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo; un ruolo di primissimo piano lo ha avuto l'Arabia Saudita. L’accordo ha istituito un governo di unità nazionale guidato dal facente funzioni, Hadi, il quale, salvo imprevisti, sarà legittimato dal voto popolare il prossimo 21 febbraio, poiché gode dell'appoggio dell'intero arco parlamentare. Una volta che sarà entrato nel pieno delle sue funzioni, l'attuale vice presidente dovrà elaborare una serie di modifiche costituzionali che agevolino la transizione democratica. Il processo dovrebbe sfociare nelle elezioni politiche, previste tra due anni.
La 'Primavera' yemenita differisce notevolmente da quella degli altri Paesi arabi, poiché ampie zone di territorio sfuggono da tempo al controllo del governo. Secondo l’Onu, il rischio di una guerra civile è concreto soprattutto nel Sud secessionista. La nomina a presidente del meridionale Hadi potrebbe tuttavia placare in parte gli aneliti separatisti. Interi quartieri delle principali città del Paese sono poi in mano a gruppi di ribelli armati. Instabile anche il Nord, dove da quasi due anni regge una tregua con i miliziani Huthi, appartenenti alla setta zaydita della minoranza sciita,che chiedono maggiore autonomia. Da sempre, lo Yemen è una delle principali basi per Al Qaeda, che qui opera con il nome "Partigiani della Sharia" e costituisce motivo di forte inquietudine anche per Arabia Saudita e Stati Uniti. La zona più turbolenta è il Sud, dove a causa delle razzie dei miliziani circa centomila persone sono state costrette a lasciare le loro case e a vivere come sfollati in tendopoli o in edifici pubblici. I qaedisti sono saldamente radicati anche nell'Est del Paese, e da tempo cercano di avanzare verso il centro e Sanaa. Al Qaeda non gode tuttavia del sostegno popolare: a Radah, città occupata dai miliziani lungo la strada per la capitale, la popolazione ha recentemente costretto i terroristi alla ritirata.