di Paola Cortese
Si moltiplicano su Facebook le pagine di solidarietà alle 239 lavoratrici licenziate da Omsa per portare la produzione in Serbia, dove il costo del lavoro è stracciato. Delocalizzare, si dice. E non per problemi di crisi del marchio mantovano. Pare che la decisione del patron Nerino del Grassi sia dovuta alla genuina volontà di aumentare il profitto. E così sul potentissimo tazebao del secondo millennio, Facebook, ma anche su Twitter, l’invito a boicottare il marchio, “Mai più Omsa”, assieme a tutti quelli collegati, come Sisi e Golden Lady, assume la forma di una crociata in cui si sono imbarcati già decine di migliaia di utenti.
La storia ormai è nota: le 239 operaie dell’azienda di Faenza ricevono la notizia del licenziamento il 31 dicembre, dopo mesi di trattative senza esito. A spasso a partire dalla metà di marzo 2012, alla fine di un periodo di cassa integrazione straordinaria in corso. Ora la leader della Cgil Susanna Camusso dice: "Il vero dramma che abbiamo oggi è che sono stati presi impegni dall'azienda che non si stanno traducendo nella realtà". Come dire che non c’è più molto da fare.
Eppure la mobilitazione via web, oltre a scatenare il boicottaggio delle calze e dei collant, ha anche lo scopo di indurre l’azienda a un ripensamento. Perché in un’epoca in cui le scelte dei consumatori sono più consapevoli, il fatto di voler guadagnare a spese dei lavoratori può diventare un boomerang per l’imprenditore. Bisogna chiedersi se la decisione di delocalizzare non finisca per essere vanificata in poco tempo dalla perdita di acquirenti. E se, da ora in poi, il marketing tradizionale non debba tenere conto anche di decisioni dei consumatori basate non solo sul prezzo e sulla qualità dei prodotti ma anche sulla qualità “politica” e “morale” delle strategie aziendali.
In Omsa tirava una brutta aria da anni, da quando si è cominciato a parlare di un trasferimento in Serbia, a causa degli incentivi offerti da Belgrado, che ci va giù duro: sgravi fiscali dai 5mila ai 10mila euro annui per ogni posto di lavoro creato sul luogo, oltre alle esenzioni doganali e altre agevolazioni fiscali. Nel luglio del 2010 la decisione è presa: cominciano i periodi di cassa integrazione, fino ad arrivare al licenziamento collettivo, comunicato per fax alle dipendenti di Faenza. Un mezzo obsoleto, cui ha risposto l’artiglieria pesante dei social network. E ora la parola ai consumatori.
Intanto, il 12 gennaio le parti si incontreranno al ministero delle Attività produttive per cercare una soluzione: magari qualcuno disposto a comprare lo stabilimento mantenendolo a Faenza.