di Fabrizio de Jorio
Afghanistan, Herat 5 gennaio 2012
Come ultimo tour prima di rientrare a Roma, insieme al colonnello Vincenzo Lauro, il gruppo di giornalisti che ha seguito le attività dei nostri militari durante le festività d fine anno, è stato accompagnato al Prt di Herat, guidato dal colonnello Giacinto Parrotta. Dopo un briefing e la interessante visita al Provincial reconstruction team, che il 30 maggio è stato oggetto di un attentato suicida, ci siamo recati al carcere di Gales Zon Gharb: 2500 detenuti tra i quali circa 120 donne e circa 75 bambini.
Nella sezione femminile, ristrutturata con l’intervento del Prt di Herat, è previsto un tour con il direttore, Al Haj Abdol Majid Sadeghi. Ma prima della visita c’è la distribuzione di giocattoli ai bimbi reclusi con le loro mamme e anche ai figli degli agenti penitenziari, un dono dell’associazione di Cagliari, Pasfa (patronato associativo sostegno forze armate). E’ meraviglioso vedere i sorrisi dei bimbi, la loro felicità nel ricevere tanti giochi e dolcetti dalle mani di premurose soldatesse e graduate in divisa, coadiuvate dal colonnello Parrotta, dal colonnello Vincenzo Lauro e dal cappellano militare, Gian Mario Piga. Subito dopo la cerimonia, la visita alla sezione femminile del carcere. Un fotografo di guerra scatta decine di foto ai volti di queste donne che dapprima si scherniscono ma poi si lasciano fotografare con espressioni profonde e allo stesso tempo segnate dalla sofferenza. Le donne si trovano in ampie stanze dove apprendono un’arte come quella dei telai, dove si tessono i tappeti, o addirittura una sala dove le detenute imparano l’arte del trucco e parrucco.
Ma ad un certo punto, tra le tante donne che incontro ce ne è una che mi colpisce: avrà 40 anni o poco più, è bassina, viso tondo incorniciato dal tradizionale velo afghano e occhi buoni, si chiama Zerminah. Stava tessendo quando le rivolgo la parola, attraverso un interprete che traduce dal Pashtun all’italiano: ma come mai lei si trova qui? “Mi hanno accusata di aver ucciso mio marito dandogli fuoco, ma non è vero: si è suicidato, lui era drogato”. Che condanna deve scontare? “Trent’anni, due li ho già scontati”. Ma il suo avvocato, le chiedo incredulo, non ha fatto appello, non aveva testimoni che potevano confermare la sua versione? “No, sono stata condannata prima ancora di essere ascoltata e il mio avvocato non si è neanche presentato all’udienza. Mi hanno costretta a dire che ero stata io a gettare la benzina su mio marito”. Intanto, mentre continuo a filmare l’intervista, si forma una piccola folla intorno alla donna. Ad un certo punto chiedo all’interprete di consultare il direttore del carcere per sapere se il diritto afghano preveda un avvocato d’ufficio per gli imputati meno abbienti, soprattutto donne.
Attimi di imbarazzo: l’interprete e il direttore parlano fitto per un minuto senza tradurre: intervengo e chiedo al direttore se lui si sente di impegnarsi a garantire un avvocato per Zerminah. L’interprete traduce: “Il direttore ha detto che lo farà e già fin da questa settimana si attiverà per fornire assistenza legale alla signora Zerminah”. Con questo impegno formale del direttore Majid Sadeghi, termina l’intervista. La visita al carcere continua, tante donne, recluse, molte con i loro bimbi, la maggior parte “colpevoli per essere scappate” dal marito che le picchiava o per essere accusate di “prostituzione” o “adulterio.
Donne costrette a decidere se rimanere a casa con un marito violento o fuggire per cercare la libertà. Ma le donne, in Afghanistan, non hanno neanche la libertà di scappare per mettersi a riparo dalla violenza perché altrimenti, quelle fortunate, finiscono in questo carcere ad Herat, un penitenziario modello rispetto alla brutale realtà delle altre carceri afghane. Nel nuovo Afghanistan ci sarà più rispetto e un diritto più giusto per l’universo femminile?
Nelle foto: in alto Zerminah (a sinistra) insieme a un'altra detenuta; alcune detenute lavorano al telaio; una detenuta insegna il trucco ad un'altra appena arrivata; in basso, il direttore del carcere di Herat (al centro) con il colonnello Parrotta