di Federica Marino
“Malattia del re”: con questo nome era nota un tempo l’emofilia, frequente nelle famiglie regnanti per i numerosi matrimoni fra consanguinei. Si tratta infatti di una malattia di origine genetica, trasmessa dal cromosoma X: per questo motivo i malati sono in maggioranza individui maschi, mentre le donne sono più facilmente portatrici sane.
Quando si parla di emofilia ci si riferisce alla scarsità o assenza nel sangue di due dei molti fattori coagulanti: si tratta di proteine prodotte nel fegato e chiamate a bloccare le emorragie. Se nel sangue mancano – o sono poco attivi - i fattori VIII e IX, la diagnosi sarà di emofilia di tipo A o B, più o meno grave a seconda di quanto il fattore coinvolto “lavora” a bloccare il sanguinamento.
Attenzione globale alla persona prima che al paziente, sostegno alle famiglie, sinergia tra famiglie e figure mediche sono i cardini dell’intervento per una patologia che non si guarisce ma si cura, e che diventa una “compagna di vita”. Con il progredire della ricerca è aumentata la prospettiva di vita, mentre resta ancora molto da fare per la sua qualità. Lo sport in sicurezza potrebbe essere un fattore importante, date le sue forti componenti di socializzazione, fondamentali per chi sta crescendo, ed è un bambino prima di essere un emofilico.
Pensiamo allora un bambino che sta imparando a camminare e alle tante cadute prima di muoversi con sicurezza: traumi minimi, che lasciano tutt’al più un livido. Per i piccoli emofilici però, c’è anche il rischio di lesioni interne, a livello articolare e muscolare, che se ignorate causano dolore, tumefazione, fino a danni funzionali: non stupisce che a lungo la profilassi contro i danni dovuti all’emofilia sia passata anche per il “divieto” di praticare sport o un’attività fisica potenzialmente rischiosa.
Andrea ha sedici anni. E’ emofilico. Va a cavallo. E vince. La sua storia è stata raccontata in un convegno, a Roma, patrocinato dal Senato e supportato da Baxter, azienda farmaceutica che produce le proteine coagulanti. Al centro dell’incontro, cui hanno partecipato i referenti per l’emofilia dei tre principali ospedali romani, Policlinico Gemelli, Bambin Gesù e Umberto I, un progetto di ippoterapia per bambini emofilici, partito a Roma in questi giorni. Perché ippoterapia?
All’impegnativa domanda risponde Nicoletta Angelini, presidente de L’Auriga Onlus: è nel suo Centro di Attività Equestri Integrate che si svolgerà il progetto “Cavallo compagno di giochi e di sport”. “Parliamo di ippoterapia in senso molto ampio, ovviamente, poiché non ci rivolgiamo in questo caso a persone disabili, ma a giovani pazienti che grazie a una terapia farmacologica recuperano la carenza di fattore coagulante e possono quindi condurre una vita normale, sport compreso. I ragazzi che verranno qui nel corso del progetto potranno svolgere un’attività sportiva in un ambiente protetto ma non soffocante. Parlare di ippoterapia aiuta forse a identificare il tipo di attività proposta, in questo caso l’equitazione, assistita da operatori sociosanitari in grado di soddisfare anche i bisogni particolari di utenti non disabili".
Non ci sono sport meno pericolosi di quelli equestri, data anche la particolare condizione dei ragazzi?
“Non bisogna pensare necessariamente al salto ostacoli o alle corse di galoppo, anche se la storia di Andrea dimostra che tutto è possibile, con una forte motivazione e l’adeguata attenzione. La presenza del cavallo costituisce il valore aggiunto rispetto ad altri sport: bisogna relazionarsi con un altro essere vivente, ascoltarlo, capirlo e mettersi in comunicazione con l’animale. Si fa sport, certo, ma soprattutto si impara a tenere conto dell’Altro. Questa competenza è poi riproducibile nelle interazioni sociali, cosa importantissima per i giovani emofilici a lungo trattati come "fiori di serra", protetti da un ambiente percepito come ostile. Non è un caso che le attività siano aperte ai fratelli dei ragazzi e ai loro amici: lo sport diventa un momento sociale, un’occasione di scambio tra pari, diversi”.
Risultati attesi?
“Certamente la maggiore autonomia dei ragazzi, sul piano fisico attraverso lo sport e su quello psicologico ed emotivo attraverso l’accudimento del cavallo-compagno di sport.
Il “prendersi cura” – in questo caso del cavallo, ma più in generale come attitudine verso l’esterno – rappresenta per questi ragazzi un proficuo scambio di ruoli: da pazienti spesso passivi diventano infatti parte attiva in una relazione di benessere, che potranno sperimentare nella quotidiana convivenza con l’emofilia”.