di Rodolfo Fellini
(r.fellini@rai.it)
Le elezioni politiche di domenica rappresentano un difficile banco di prova per i politici spagnoli, che puntano a riuscire là dove i colleghi greci e italiani hanno fallito: uscire dalla crisi economica senza dover ricorrere a governi tecnici o di unità nazionale. Tutta la campagna elettorale è stata condizionata dalle precarie condizioni in cui versa l'economia del Paese, resa fragile dalla scarsa differenziazione delle attività produttive. Tramontati i fasti del miracolo targato Zapatero, oggi la Spagna conta cinque milioni di disoccupati, una cifra record per l'Unione europea. Sull'argomento, Televideo ha intervistato Luca Veronese, inviato a Madrid del quotidiano "Il Sole 24 Ore".
«Più società, uno Stato migliore»: è questo lo slogan della campagne elettorale del Partito popolare guidato da Mariano Rajoy. Tradotto nel programma economico significa, come ha ricordato lo stesso leader conservatore, meno tasse per le imprese, con una corporate tax ridotta al 20% per le piccole e medie aziende; più aiuti alle imprese che assumono: fino a 3mila euro per posto di lavoro nelle nuove attività. Ma anche meno tasse sulle rendite finanziarie degli investitori, più agevolazioni per chi acquista immobili e Iva ridotta sulle case. Per il mercato del lavoro, la ricetta popolare prevede meno contrattazione collettiva e più spazio agli accordi a livello aziendale, e meno tipologie di contratti di lavoro. Per il leader del Partito socialista Alfredo Rubalcaba, è indispensabile introdurre in tempi rapidi «nuove tasse sui grandi patrimoni» e «nuove tasse per le banche», che dovranno fare la loro parte nel sostenere i costi della crisi e nel ripagare gli aiuti di Stato ricevuti. Anche i socialisti vogliono «rivedere le imposte sulle società» e certo sono d'accordo nell'introdurre forti agevolazioni alle imprese che assumono. Rajoy ha un programma liberista. Rubalcaba difende il Welfare costruito in questi anni e attacca il rivale, accusandolo di «non spiegare quali misure di austerity i popolari metteranno in campo, dove andranno a tagliare la spesa pubblica». La crisi profonda sta riportando la Spagna in recessione, con cinque milioni di disoccupati; i prezzi delle case che non smettono di scendere e le banche da ricapitalizzare. Chi governerà sarà comunque costretto a continuare sulla linea del risanamento, per rispettare gli obiettivi concordati con l'Europa: deficit al 6% quest'anno e al 4,4% nel 2012. E per mantenere quel poco di fiducia che resta sui mercati: con rendimenti del 6% sui titoli decennali del debito.
Il tasso di disoccupazione, così al di sopra della media Ue, è da ritenersi un fenomeno endemico, e perché?
La Spagna ha un tasso di disoccupazione del 21,52%, il più alto dell'Unione europea. Ci sono cinque milioni di disoccupati su 47 milioni di abitanti. Un milione e mezzo di famiglie non possono fare affidamento su alcun occupato. Il 45% dei giovani spagnoli non riesce a trovare un posto di lavoro: quasi il doppio dei loro coetanei francesi, cinque volte di più dei tedeschi under 25. La crisi finanziaria internazionale a Madrid si è sommata al crollo del settore immobiliare e alle pressioni sul debito sovrano con ripercussioni profonde sull'occupazione. La Spagna ha un'economia sbilanciata sui servizi con una struttura industriale meno solida rispetto alla Germania e anche all'Italia. Nelle fasi di recessione o di crescita scarsa, l'economia perde lavoro con maggiore facilità: in questi mesi, soprattutto a causa delle continue difficoltà del settore immobiliare e delle costruzioni. Ma è anche in grado di recuperare con quasi altrettanta rapidità. Nel 1994 il tasso di disoccupazione spagnolo era intorno al 24%, quello tedesco era sotto il 9%. Ma nel 2004 i due Paesi erano alla pari. E ancora nel 2007, prima della grande crisi, Spagna e Germania avevano entrambe un tasso di disoccupazione intorno all'8,5%. Poi quello spagnolo è quasi triplicato mentre quello tedesco è addirittura sceso.