di Rodolfo Fellini
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Espatriare per aiutare chi è in difficoltà: un tempo era una missione riservata per lo più ai religiosi, oggi è un modello di civiltà anche laica, un lavoro a tutti gli effetti, con un numero di addetti che aumenta di anno in anno e un’attenzione crescente tra i cittadini di ogni ceto sociale e di ogni età. Una ricerca, condotta dalla Siscos, il patronato che da 35 anni lavora al servizio degli operatori della Cooperazione, traccia l’identikit del cooperante italiano.
Nel 2010, gli italiani impegnati nelle Ong all’estero erano 7.194, con una lieve prevalenza delle donne rispetto agli uomini e degli ultraquarantenni sulle altre fasce di età. Si tratta di due dati molto significativi, che testimoniano come la cooperazione abbia saputo da un lato valorizzare il lavoro femminile, e dall’altro garantire una continuità lavorativa a quei ‘pionieri’ che 20 o 30 anni fa, giovanissimi, davano vita ai primi progetti nei Paesi emergenti e che da allora hanno ripetuto l’esperienza fino a farne un’attività a tempo pieno. Oltre l’80% dei cooperanti italiani vanno a lavorare all’estero con contratti privati, mentre il restante 20% si avvale della partecipazione del ministero degli Esteri.
La massima parte dei contratti ha durata inferiore ai 5 mesi, ma la la molteplicità delle emergenze, e quindi dei progetti, fornisce di continuo nuove occasioni di lavoro. Dei 116 Paesi con almeno un operatore italiano, quelli con la più forte presenza sono Mozambico (327 connazionali), Kenya (319), Brasile (275), Tanzania (270), Territori Anp (264) e Rep. Democratica del Congo (250).
La figura del cooperante non si basa più su una generica ‘buona volontà’, ma su competenze sempre più specializzate. A fianco di ogni italiano, lavorano in media 10 operatori assunti in loco. ‘I progetti –spiega Cinzia Giudici, presidente della Siscos- sono finanziati per lo più dalle grandi Organizzazioni internazionali, da privati, imprese ed Enti locali. La diversificazione dei finanziamenti consente di continuare a garantire la nostra presenza capillare in tutto il mondo, nonostante i sempre più cospicui tagli varati negli ultimi anni dal governo, che hanno provocato una profonda crisi della cooperazione internazionale’.
Claudio Ceravolo, presidente della Fondazione Coopi, ha tracciato il quadro degli eventi che costituiscono un rischio per le persone impegnate nelle Ong. ‘Quello del cooperante non è un mestiere pericoloso per quanto attiene guerre o accadimenti sociali, che hanno incidenze bassissime. Tuttavia il tasso di mortalità resta alto, assimilabile a quello dei minatori: in 30 anni, la Cooperazione ha lamentato 687 sinistri e 72 vittime, un terzo delle quali imputabili a incidenti stradali. Gli incidenti in genere rappresentano oltre metà delle vittime e l’80% dei sinistri complessivi. Seguono le malattie (13% dei sinistri, con il 4% rappresentato da malattie tropicali) e, a chiudere, le violenze (7%, in massima parte episodi di banditismo)’.
Il nodo della formazione è stato affrontato da Marisa Belluscio, coordinatrice del Master in Cooperazione e Progettazione per lo sviluppo dell’Università La Sapienza di Roma. “Il Master -ha spiegato- è aperto ai laureati di tutte le discipline, per esaltare le possibili sinergie tra professionalità diverse, ma complementari. Particolare attenzione viene rivolta alla progettazione, sia per lo sviluppo che per l’aiuto umanitario, che sono le due grandi aree di intervento”.
Sulle difficoltà finanziarie del settore si è soffermato Savino Pezzotta, presidente del Consiglio italiano per i rifugiati, il quale sospetta che ‘la strategia governativa sia di far scomparire la cooperazione internazionale. E’ convinzione diffusa –osserva- che la cooperazione sia una cosa marginale; essa invece ha una dimensione economica e sociale molto profonda, e giova molto anche all’immagine dell’Italia nel mondo. Occorre rompere gli schematismi filantropici e mostrare la realtà nella sua concretezza, per far sì che anche la politica si accorga dell’importanza del settore e torni a impegnarsi in maniera congrua’, ha concluso.