La scheda


Stampa

Leucemia linfatica cronica: identikit di una malattia

Cos'è, chi rischia di più, come si manifesta, come si cura e le opzioni terapeutiche

Cos’è
La leucemia linfatica cronica é una patologia caratterizzata dall’aumento continuo di particolari globuli bianchi - i linfociti B CD5+ - nel sangue, nel midollo osseo, nei linfonodi e nella milza. Si tratta della leucemia più comune tra la popolazione adulta dei Paesi occidentali, dove rappresenta il 25-30% di tutte le leucemie. Colpisce più gli uomini delle donne, con un rapporto di circa 1.5-2:1. Il tasso di incidenza annua è di circa 2-6 nuovi casi per 100.000 abitanti. La cifra aumenta con l’età, sino a raggiungere 12.8/100,000/anno nell’età media alla diagnosi, che è di 65 anni.

Chi rischia di più
Ad oggi nessuno degli agenti leucemizzanti noti, come ad esempio le radiazioni ionizzanti o particolari composti chimici, è stato correlato con l’insorgenza della patologia. Una predisposizione familiare e genetica appare invece rilevante nella patogenesi della leucemia linfatica cronica: ad esempio è una malattia rara in Cina e Corea e risulta praticamente assente in Giappone. Il tasso di incidenza si mantiene basso anche tra gli emigrati giapponesi e nella loro discendenza, escludendo così la possibilità che i fattori ambientali possano modificare tale predisposizione genetica. Inoltre, l’evidenza epidemiologica indica che nel 5-10% dei casi esiste una suscettibilità alla leucemia linfatica cronica (e ad altre forme di malattie correlate come i linfomi) di tipo familiare, per cui si possono ritrovare due o più individui affetti nella stessa famiglia. Il rischio globale di sviluppare queste malattie è 7-9 volte maggiore tra familiari di primo grado di pazienti affetti da leucemia linfatica cronica, rispetto al resto della popolazione e soprattutto, di generazione in generazione, l’età d’esordio è sempre più precoce e il quadro clinico più severo.

Come si manifesta
Spesso la malattia non dà alcun segno della sua presenza, tanto da essere scoperta per caso durante le comuni analisi del sangue. In altri casi sono presenti sintomi dovuti alla diffusione delle cellule neoplastiche nel midollo osseo e nel sangue periferico, come astenia, affaticamento crescente causato da un’anemizzazione progressiva, oppure segni che ricordano quelli di un linfoma, come ingrossamento dei linfonodi, del fegato e della milza, magari uniti a sintomi generali come calo di peso, febbre senza motivo apparente, sudorazione notturna. In tutti i casi, per arrivare alla diagnosi occorrono esami specifici effettuati sul sangue, per mettere in evidenza il tipico aspetto delle cellule di questa malattia. Occorre prestare particolare attenzione alla possibile insorgenza di infezioni, che possono presentarsi già nelle fasi iniziali e rappresentano la principale complicanza e la più frequente causa di decesso per i pazienti con leucemia linfatica cronica, soprattutto in età avanzata.

Qual è il decorso della malattia
La storia clinica della leucemia linfatica cronica è molto eterogenea. La sopravvivenza varia da un paio a decine di anni, con una media di circa 7,5 anni. Nella maggior parte dei pazienti il decesso sopraggiunge durante la malattia e non a causa di essa. In alcuni pazienti la malattia rimane stabile per il resto della vita e non richiede terapie, se non in stadi molto tardivi. L’aspettativa di vita di questi pazienti può essere simile a quella degli individui sani.

In altri si evidenzia un progressivo deterioramento del quadro clinico, con un incremento della conta dei linfociti, ingrossamento dei linfonodi (linfadenomegalia) e della milza (splenomegalia), progressiva anemia e trombocitopenia (carenza di piastrine). Questi pazienti hanno un’aspettativa di vita inferiore e necessitano di trattamenti precoci e frequenti.

Nonostante gli enormi progressi nel controllo dei sintomi mediante la terapia, la cura definitiva resta un evento estremamente raro.

Come si cura
Il recente perfezionamento dei regimi terapeutici e l’utilizzo di terapie più moderne e meno tossiche hanno consentito di ottenere una più alta percentuale di remissioni complete (fino al 60-70%) dopo il trattamento, anche se praticamente in tutti i casi la malattia si ripresenta successivamente (recidiva).

In termini generali, l’indicazione al trattamento viene stabilita in base alle condizioni generali e alla gravità della malattia. Nelle forme meno gravi, con la malattia stabile o che avanza molto lentamente (stadio A di Binet o stadio 0 di RAI), i pazienti possono essere seguiti con un approccio di vigile attesa (“wait-and-watch”), fino all’evidenza di una progressione di malattia, dato che un trattamento precoce non modificherebbe la sua storia naturale, né l’aspettativa di vita del paziente. Anche nelle forme più avanzate (pazienti con stadio B di Binet o stadio I-II di Rai) i pazienti devono essere trattati solo dopo l’accertamento della progressione di malattia o quando la malattia diventa sintomatica. L’evidenza di progressione di malattia è definita dalla presenza di uno dei seguenti criteri:
-tempo di raddoppiamento dei linfociti (LDT) 50% nella conta linfocitaria in un periodo di 2 mesi;
-malattia bulky: splenomegalia massiva (>6 cm) o progressiva, oppure linfadenopatie massive o a rapida progressione;
-progressiva insufficienza midollare: apparente peggioramento dello stato anemico o della trombocitopenia;
-anemia autoimmune o trombocitopenia NON responsiva a terapia steroidea.
-sintomi sistemici: calo ponderale (>10% negli ultimi 6 mesi), febbre (per due settimane in assenza di infezioni), sudori notturni, astenia severa;
-Infine i pazienti che si presentano già con i segni di progressione al momento della diagnosi (stadio C di Binet e stadio III-IV di Rai) devono essere sottoposti a trattamento nel giro di breve tempo.

I sistemi di classificazione della leucemia linfatica cronica attualmente impiegati sono due, la classificazione secondo Rai (usata soprattutto negli USA) e la classificazione secondo Binet (utilizzata principalmente in Europa). Vengono usati per determinare l’estensione della malattia, la prognosi e, soprattutto, per stabilire modalità e tempistiche terapeutiche. La classificazione Rai modificata divide i pazienti in tre gruppi: a rischio basso (0), intermedio (I-II) e alto (III-IV), mentre quella di Binet in 3 stadi A, B e C. Entrambe prendono in considerazione il numero di aree linfonodali interessate dalla malattia e il grado di anemia e piastrinopenia, in maniera molto simile.


Le opzioni terapeutiche

La chemioterapia classica con agenti alchilanti
Per diversi decenni le terapie a base di agenti alchilanti hanno costituito il trattamento standard di prima linea nei pazienti affetti da leucemia linfatica cronica, secondo schemi di somministrazione giornaliera o intermittente, come agenti singoli o in associazione a corticosteroidi. Il trattamento monochemioterapico con chlorambucil consente una risposta fino al 70% di casi, ma solo in meno del 5% si tratta di una risposta completa. Tutti i pazienti vanno incontro ad una recidiva. Oggi, grazie alle nuove opzioni terapeutiche più efficaci, il chlorambucil è indicato nel trattamento palliativo della sintomatologia, soprattutto nei pazienti in età avanzata e portatori di altre patologie. Al momento viene valutato in studi clinici in associazione con anticorpi monoclonali, al fine di incrementarne l’efficacia terapeutica.

Gli analoghi delle purine
Dalla metà degli anni ‘80, l’utilizzo di analoghi delle purine è diventato il trattamento standard di prima linea per la leucemia linfatica cronica. Tra i diversi agenti la fludarabina é l’analogo delle purine più studiato nei Paesi occidentali e il più utilizzato. La fludarabina utilizzata come singolo agente di prima linea, induce una risposta globale nell’80% dei casi, con un 38% di risposte complete. L’aggiunta di prednisone non ha dimostrato alcun beneficio, come già accaduto per i protocolli con gli agenti alchilanti. Mentre la fludarabina ha sempre dimostrato una maggiore risposta globale e una maggiore durata della remissione, rispetto al solo clorambucil o ai regimi a base di agenti alchilanti, non è stata osservata alcuna differenza in termini di sopravvivenza. Si è vista poi un’azione sinergica tra fludarabina e ciclofosfamide e la combinazione di questi due farmaci è stata oggetto di studi che hanno ottenuto un più alto tasso di risposta, unitamente ad un maggiore intervallo libero da progressione di malattia. Tuttavia, anche con questa associazione non è stata evidenziata alcuna differenza in termini di sopravvivenza globale mediana.

Gli anticorpi monoclonali
Rituximab, primo farmaco anti-CD20, è stato utilizzato inizialmente nel trattamento dei linfomi non-Hodgkin recidivanti o in quelli refrattari indolenti. Successivamente è stato adottato nel trattamento della leucemia linfatica cronica, nonostante le cellule di leucemia linfatica cronica esprimano tipicamente bassi livelli di CD20. Diversi studi hanno ormai dimostrato che nei pazienti con leucemia linfatica cronica precedentemente non trattati, la fludarabina è superiore come agente singolo rispetto al rituximab, che induce soprattutto risposte parziali, e solo in pochi casi consente una risposta completa Il rituximab è stato successivamente impiegato in associazione con fludarabina, o fludarabina e ciclofosfamide (FC). La combinazione FCR (fludarabina, ciclofosfamide, rituximab) deve essere considerata oggi la miglior opzione terapeutica di prima linea nei pazienti “fit” (pazienti in genere giovani e con un buon performance status in grado di tollerare un trattamento più aggressivo, che ha uno scopo terapeutico e non palliativo) e per il trattamento della leucemia linfatica cronica in progressione. L’alemtuzumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro CD52, marker espresso da tutti i linfociti umani (incluse le cellule neoplastiche B), dai monociti e dai macrofagi. Data la diffusa espressione di CD52, gli effetti collaterali più comuni sono le tossicità ematologiche e sul sistema immunitario. Queste includono neutropenia (26%) e linfopenia prolungata, oltre a trombocitopenia (23%), anemia (11%) e complicanze di tipo infettivo, che costituiscono l’effetto collaterale più importante della terapia con alemtuzumab. I pazienti trattati con alemtuzumab devono essere sottoposti a profilassi per pneumocistis carinii e virus della varicella-zoster. La riattivazione del citomegalovirus (CMV) deve essere monitorata durante l’intera terapia. Studi iniziali hanno dimostrato l’efficacia di questo anticorpo nei pazienti con leucemia linfatica cronica refrattaria/recidivante e costituisce l’unico farmaco ufficialmente registrato per il trattamento dei pazienti con leucemia linfatica cronica refrattaria alla fludarabina.

Autotrapianto e allotrapianto
Il trapianto autologo produce un alto tasso d irisposte complete nei pazienti con LLC, inclusa la remissione molecolare, pur non consentendo la cura definitiva, come dimostra il costante andamento recidivante della malattia, per cui oggi non è più considerata una opzione terapeutica valida nel trattamento della LLC, a causa della maggior tossicità rispetto ai trattamenti immuno-chemioterapeutici. Il ricorso al trapianto allogenico è limitato dall’età avanzata del paziente e dall’alta percentuale di mortalità correlata al trapianto (compresa tra 20% e 41% dei casi). Al momento, il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche è la principale indicazione per il trattamento dei pazienti refrattari ed è l’unica opzione che può portare (seppur in un numero limitati di casi) a remissioni prolungate della malattia. L’autotrapianto è un po’ tramontato dopo i risultati di FCR (vedi Blood del 9 giugno 2011 commento di Montserrat e Gribben).

Il trapianto allogenico (sulla base del consensus dell’EBMT, Dreger P Leukemia 2007), è l’unica terapia nota che può guarire la leucemia linfatica cronica.

Le difficoltà di cura della leucemia linfatica cronica refrattaria: il ruolo di ofatumumab
Ofatumumab è un innovativo anticorpo monoclonale umano diretto contro il CD20 indicato nel trattamento della leucemia linfatica cronica nei pazienti refrattari a fludarabina e alemtuzumab, farmaci utilizzati nel trattamento della malattia.

Il farmaco si lega infatti ad un epitopo (ad anello) della molecola del CD20, presente sulla membrana cellulare dei linfociti B leucemici diverso rispetto a quello del Rituximab (altro anticorpo anti-CD20, già utilizzato in clinica). Il particolare legame di ofatumumab induce un’efficiente attivazione del sistema del complemento del paziente, un meccanismo che favorisce la distruzione (lisi) delle cellule leucemiche più rapida ed efficace rispetto a Rituximab (come dimostrato da studi in vitro pubblicati).

Ofatumumab offre una valida opportunità di trattamento dei pazienti refrattari a fludarabina ed alemtuzumab, che attualmente hanno una prognosi molto sfavorevole con un’aspettativa di vita di pochi mesi con le terapie oggi disponibili.

Nell’aprile 2010 ofatumumab ha ottenuto l’autorizzazione al commercio nei 27 stati dell’Europa dalla Commissione Europea come nuova opzione terapeutica per il trattamento di pazienti con leucemia linfatica cronica che non rispondono a fludarabina e alemtuzumab. Il via libera a ofatumumab è stato dato sulla scorta dei risultati di uno studio pilota, multicentrico, non randomizzato, che ha previsto la somministrazione dell’anticorpo monoclonale in 154 pazienti con leucemia linfatica cronica. I malati arruolati nello studio appartenevano a due sottopopolazioni diverse: o non avevano risposto al trattamento con fludarabina e alemtuzumab o, oltre alla refrattarietà al trattamento con fludarabina, presentavano un notevole ingrandimento dei linfonodi (un diametro maggiore di 5 centimetri) per cui il trattamento con alemtuzumab veniva considerato poco efficace.

Nei 59 pazienti refrattari a entrambi i farmaci, ofatumumab in monoterapia ha offerto un tasso di risposta del 58%. Sulla scorta anche dei dati relativi al profilo di efficacia e sicurezza di ofatumumab, le autorità regolatorie europee hanno quindi dato il via libera al farmaco per i malati refrattari a fludarabina e ad alemtuzumab, rispondendo così ad un bisogno non soddisfatto dalle attuali terapie in quanto, questa categoria di malati non aveva altre opportunità di cura.

Ofatumumab si è dimostrato efficace anche nell’altra popolazione in studio (pazienti refrattari a fludarabina e con linfonodi superiori ai 5 centimetri di diametro). Tuttavia, vista l’approvazione di altri farmaci come alemtuzumab per questa categoria di malati, le autorità regolatorie americane ed europee hanno valutato i dati disponibili non sufficienti per questa categoria di pazienti e hanno richiesto ulteriori dati sperimentali. Uno studio specificatamente volto a valutare efficacia e sicurezza di ofatumumab in questa popolazione è già in corso a livello internazionale. (M. R.)