di Maurizio Righetti
Si apre una nuova affascinante strada per il trattamento delle forme più gravi e complesse di leucemia linfatica cronica, malattia che colpisce 2-6 persone ogni 100.000 abitanti e si concentra soprattutto negli anziani: intorno ai 65 anni, età media di diagnosi, sono 12,8 su 100.000 le persone che si ammalano, più uomini rispetto alle donne, con un rapporto di 2 a 1. Pur se in molti casi l’osservazione del quadro è sufficiente, spesso sono necessarie terapie mirate. Quando i pazienti falliscono il trattamento con fludarabina e alemtuzumab, due dei principali farmaci utilizzati nelle diverse combinazioni, o presentano una malattia particolarmente sviluppata negli organi bersaglio, come fegato, milza e ghiandole linfatiche, è possibile impiegare un nuovo anticorpo monoclonale, ofatumumab, che sì è dimostrato efficace in queste circostanze. Ofatumumab, in uno studio condotto su 154 pazienti con leucemia linfatica cronica che non avevano risposta al trattamento con fludarabina e alemtuzumab, oppure presentavano un diametro delle ghiandole linfatiche superiore a 5 centimetri (in questi casi alemtuzumab è considerato poco efficace), ha evidenziato tassi di risposta molto interessanti. Nei pazienti refrattari a entrambi i farmaci, il tasso di risposta è stato del 58 per cento. Sulla scorta di questi e altri dati il farmaco, sviluppato dai ricercatori di GlaxoSmithKline e approvato dalla FDA americana prima e dall’ente regolatorio europeo EMA poi, è oggi disponibile anche in Italia proprio per questo gruppo di pazienti refrattari.
Robin Foà, direttore Ematologia Università 'Sapienza': terapia solo in caso di progressione della malattia
“La leucemia linfatica cronica è caratterizzata dall’aumento progressivo dei linfociti B CD5+ nel midollo osseo e negli organi linfatici secondari come i linfonodi e la milza – spiega il Robin Foà, direttore dell’Ematologia dell’Università 'Sapienza' di Roma. Spesso la malattia viene diagnosticata in individui del tutto asintomatici, mentre in altri casi sono presenti astenia, una leggera febbre e calo ponderale. Il medico può riscontrare, oltre all’incremento dei linfociti circolanti, ingrossamento dei linfonodi, del fegato e della milza: l’esame delle cellule del sangue periferico e del midollo consente di arrivare ad una diagnosi precisa e ad una diagnosi differenziale con patologie simili”.
A differenza di quanto avviene per altre forme di leucemia, nella leucemia linfatica cronica l’approccio di cura varia in base alle caratteristiche della malattia e del paziente. In molti casi, infatti, non viene aggredita subito e con ogni mezzo a disposizione, ma viene monitorata con attenzione e contrastata con la terapia solo in caso di progressione della malattia. “L’evoluzione della leucemia linfatica cronica è molto eterogenea e la sopravvivenza varia da un paio fino a dieci e più anni”, precisa Foà. Nella maggior parte dei pazienti, perlopiù anziani, “addirittura il decesso può sopraggiungere durante la malattia, ma non a causa della stessa”.
Antonio Cuneo, direttore Ematologia Università di Ferrara: preziose ma a volte non sufficienti le combinazioni usate fino a oggi
Visto che al momento non è disponibile un trattamento “definitivo” in grado di vincere la patologia, le terapie puntano soprattutto a sfruttare le potenzialità offerte da diversi farmaci associabili tra loro. “Attualmente il trattamento d’esordio prevede l’associazione tra fludarabina ed un vecchio chemioterapico alchilante, la ciclofosfamide - spiega Antonio Cuneo, direttore di Ematologia all’Università di Ferrara -. A questi si aggiunge un anticorpo monoclonale, il rituximab, diretto contro l’antigene CD20 espresso sui linfociti B normali e patologici, o, in alcuni casi, l’alemtuzumab (diretto contro l’antigene CD52 espresso ad alta densità sui linfociti circolanti B e T)”. Al di là dell'importanza fondamentale dei dati tecnici, nel concreto “il miglioramento delle strategie terapeutiche ha permesso di potenziare il numero, la qualità e la durata delle risposte ottenute dopo il trattamento iniziale, ma i pazienti tendono comunque a presentare una recidiva di malattia”.
Per i pazienti più complessi il rimedio sembra finalmente arrivato
E’ per questo che occorre studiare protocolli in grado di offrire risposte anche in simili circostanze. “La problematica più seria - specifica Cuneo - è quella che riguarda i pazienti che hanno fallito il trattamento con fludarabina e alemtuzumab o che, resistenti a fludarabina, presentano la cosiddetta “bulky disease” (caratterizzata da uno spiccato aumento di volume delle ghiandole linfatiche ed eventualmente di fegato e milza) che non si gioverebbe di una terapia con alemtuzumab. E’ dunque più che mai importante la disponibilità di ofatumumab, anticorpo monoclonale che possiede caratteristiche diverse da rituximab, con il quale condivide il “target”, cioè il linfocito CD20. Uno studio di fase II, recentemente pubblicato, ha dimostrato in questo senso che questo rimedio è clinicamente superiore ai trattamenti precedentemente adottati proprio in questi pazienti di gestione particolarmente complessa”.
L'azione del farmaco di ultima generazione Ofatumumab
Ofatumumab di GlaxoSmithKline è un innovativo anticorpo monoclonale umano con un meccanismo d’azione unico. Si lega infatti ad un piccolo epitopo ad anello (che rappresenta il sito di legame dell’anticorpo) presente sulla molecola CD20 delle cellule B (particolare tipo di globuli bianchi) leucemiche e blocca la membrana cellulare. Questo sito di legame è diverso da quello di rituximab, l’altro anticorpo monoclonale attualmente disponibile che agisce sul CD20. Il particolare legame di ofatumumab è stato disegnato per indurre un’efficiente attivazione del sistema del complemento del paziente, un meccanismo che favorisce la rapida ed efficace distruzione o lisi delle cellule leucemiche, anche all’interno dei linfonodi.
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