I consumatori: meglio la tracciabilità


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Dal Made in Italy al Made in the World

La Ue: le regole sono inadeguate made_in_italy_296

di Monica Moretti

Le produzioni sono talmente globalizzate che ormai molti prodotti “Made in”….Italy, France, Germany, etc, sono in realtà “Made in the world”. A sostenerlo è l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che quest’anno ha lanciato un vero e proprio percorso per valutare se le regole utilizzate dallo stesso Wto per contabilizzare i passaggi di merci tra Paese e Paese e le norme in vigore nei vari Stati per proteggere i prodotti tipici sono efficaci.

Il sistema statistico del Wto, prevede oggi che vengano registrati i passaggi che merci e servizi fanno attraverso le varie frontiere. “Succede però – spiega Hubert Escariat, capo della divisione Statistica del Wto -, che un prodotto finito, venduto da un Paese ad un altro, sia in realtà il risultato di svariati passaggi preliminari attraverso le frontiere di un numero indefinito di materie prime, semilavorati, servizi, che hanno contribuito a realizzarlo”.

Un fenomeno destinato ad aumentare nel tempo, soprattutto per quel che riguarda l’Europa, visto che la commissione Ue calcola che nel futuro il 90% dell’economia comunitaria verrà generata fuori dall’Ue e che, già nel 2010, un terzo della crescita europea è scaturita proprio dal commercio estero. “Stando a questi dati – spiega il capo economista della Dg Trade dell’Ue, Lucien Cerant – è chiaro che le regole sulle denominazione d’Origine e sul “Made in” sono inadeguate a fotografare il nuovo scenario e che i Paesi membri sono chiamati a tenerne conto”.

“Ogni Paese ha le sue regole sul “Made in”, non c’è trasparenza – spiega il presidente dell’associazione Altroconsumo, Paolo Martinello -. E’ una normativa doganale, fatta per far pagare i dazi, non per tutelare il consumatore o il produttore. Si certificano solo le ultime fasi rilevanti della lavorazione”. Ecco allora che, ad esempio, un maglietta che riporta l’etichetta “Made in Italy” può essere cucita sì in Italia, ma con tessuti filati e colorati all’estero. Mentre il prosciutto di Parma, orgoglio nazionale, “è notoriamente prodotto – dice Martinello - con maiali nati e allevati all’estero. Stessa cosa la bresaola, fatta con carni provenienti dal Sud America”.

Al tempo stesso, la legislazione “made in” può risultare gravosa per i produttori. Indicam, Istituto per la lotta alla contraffazione dell’Associazione Italiana dell’Industria di marca, che raggruppa marchi del calibro di Barilla, Bticino, Star, e la stessa Rai, ha di recente denunciato lo Stato italiano alla Commissione europea per il mancato rispetto del diritto comunitario nell’uso del “Made in”. Le imprese italiane per vendere nel nostro Paese un prodotto recante scritto “Made in Italy” o anche solo perché su di esso compaia un marchio italiano sono sottoposte a vincoli molto più gravosi di quelli a cui deve attenersi un produttore francese per venderne in Italia uno marcato “Made in France” o un produttore tedesco per uno “Made in Germany “– spiega Silvio Paschi, direttore Indicam -. In questo modo si garantiscono solo i produttori piccoli e di nicchia. La confusione normativa, inoltre, è un fattore che gioca in favore di contraffattori”.

“Attenzione all’uso strumentale del “Made in” – avverte Martinello –. Molte volte dietro l’etichetta si nasconde lo scontro di interessi commerciali tra produttori. Inoltre diviene sempre più difficile identificare un prodotto con un luogo di produzione”. Come uscirne riuscendo a tutelare tutti, consumatori, ma anche produttori?

“Etichette troppo dettagliate rischierebbero di essere un’arma a doppio taglio perché troppa informazione genera confusione – conclude il direttore dell’associazione Altroconsumo -. L’interesse dei consumatori è la sicurezza, soprattutto dei prodotti alimentari. Questa si tutela con la tracciabilità del prodotto, cosa ben diversa dall’etichettatura, e con i controlli fatti nei singoli Stati nell’interesse di tutti”.