di Bianca Biancastri
Loro, i 33 “mineros” di San Jose di Copiapò, nel deserto cileno dell’Atacama, sono stati più fortunati di tanti colleghi che nel mondo continuano a morire nelle miniere. A un anno dal dramma che li coinvolse e dall’odissea che li riportò alla luce dalle profondità della terra, vivono, anche se non ancora liberi dagli incubi. Intrappolati per 69 lunghi giorni sono stati salvati in diretta mondiale uno a uno. Nella notte del 13 ottobre, immortalati dalle telecamere di tutto il mondo, i minatori sono stati portati alla superficie all’interno della capsula Phoenix, costruita per il salvataggio e ora conservata nel Museo regionale. E’ stato un evento mediatico con un’audience di circa un miliardo e mezzo di spettatori che, sebbene a lieto fine, a noi ricorda quello tragico di Vermicino: in migliaia incollati al teleschermo per ore, a seguire inconsapevoli la morte di un bimbo caduto in un pozzo.
A orchestrare in Cile la spettacolare operazione e la copertura mediatica, il presidente Sebastian Pinera, che dopo l’incidente ha promesso di riformare in 90 giorni le norme sulla sicurezza e prevenzione nelle miniere del Paese. Lo stesso presidente tornato alla cronaca per la dura repressione del movimento studentesco che chiede una scuola pubblica in un Paese dove il costo dell’educazione pesa per l’85% sulle famiglie.
Il salvataggio de “Los 33”, come si erano firmati nel primo messaggio arrivato in superficie il 22 agosto, è stata una corsa contro la morte, nonostante l’operazione impeccabile messa a punto dagli ingegneri cileni. Tanti i rischi, come le difficoltà tecniche e i problemi psicologici degli uomini intrappolati a 700 metri sottoterra. Qualcuno di loro nei primi 17 giorni, dal momento dell’incidente alla scoperta che erano vivi, aveva pensato che l’unico modo per sopravvivere era il cannibalismo. “Si trattava di vedere chi di noi sarebbe ‘caduto’ per primo…”, ha confessato in questi giorni ai media Samuel Avalos.
Trascorsi dodici mesi, ciascuno ha preso strade diverse. Lo scorso agosto, a quattordici è stata assegnata una pensione di 543 dollari al mese dal governo di Santiago. Quindici non lavorano, sette sono in preda a incubi devastanti, uno studia. Quattro sono tornati nelle miniere. “Questa è la mia vita, non so fare altro”, dice Pablo Rojas, più di trent’anni vissuti come minatore. Per alcuni mesi sono stati delle celebrità, accolti come “eroi” negli studi televisivi, tanti inviti per interviste e programmi, forse qualche soldo in più. “La vita non è facile –racconta la moglie di uno dei minatori- i pochi soldi che sono arrivati li abbiamo usati per allargare di due stanze la nostra casa. Per molte altre famiglie sono serviti semplicemente a vedere per la prima volta uscire acqua corrente dai rubinetti”. Molta gente non comprende il costo fisico e emotivo di trovarsi a rischio di morire per due mesi e mezzo. “I minatori non sono riusciti a riadattarsi alla vita familiare e lavorativa”, dice Alberto Iturra, responsabile dell’equipe di psicologici che parteciparono al salvataggio.
“Le case, le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo. Il sole nasceva ma io non lo vedevo mai laggiù nel buio”. Queste le parole di una canzone dei New Trolls che parla di una miniera e del dramma di chi vi lavora e vi muore. Disastri che avvenivano nel secolo scorso ma che continuano a ripetersi. Allora i minatori morivano a Monongah negli Usa (1907), a Marcinelle in Belgio (1956), ora muoiono in particolare nei Paesi emergenti, a cominciare dalla Cina. . E’ proprio in questo Paese che secondo un rapporto della Federazione internazionale delle unioni dei lavoratori nei settori dell’industria chimica, energetica e mineraria (Icem) si sono verificati la maggior parte degli incidenti mortali degli ultimi anni. Con la Cina, Russia, Ucraina, Kazakhistan, Polonia e India.
E le miniere continuano a uccidere anche in Cile, dove il presidente Pinera, dimenticata la magia dell’effetto mediatico che aumentò i consensi, non ha tenuto fede al suo impegno di riformare la legislazione sulla sicurezza e sulla salute nelle miniere.