di Maurizio IorioLenny Kravitz
Black and white America
(Roadrunner)
Lenny Kravitz edizione numero nove, versione vintage. “Black and white America” è il titolo del suo nuovo album, un inno, almeno nella title track, all’integrazione razziale del suo paese. E’ l’America dai colori sbiaditi degli anni ’70 e ‘80 quella che emerge dalle 16 tracce dell’album.
In pratica un doppio vinile di una volta. L’anima nera domina il suono, un misto di funk e soul che mescola James Brown, Marvin Gaye, Curtis Mayfield, e soprattutto Prince (in “Everything”), ma certe atmosfere da power pop degli anni ’80 (“Rock in the city life”) contribuiscono ad “imbiancare” l’album, che lievita piano piano, e dopo il (discutibile) brano d’apertura , diventa un seducente concentrato (ma non troppo) di musica d’antan, un film in bianco e nero pieno di fotogrammi della Motown dei tempi d’oro, dei Jackson Five e della disco dei tardi anni ’70.
Ma che riprende alcuni stilemi di “lennoniana” memoria (“Dream”), molto cari al musicista newyorkese. Che, comunque, non ha lo sguardo nostalgico rivolto al passato. Non è un caso, infatti, che in alcuni brani facciano la loro comparsa alcuni prestigiosi esponenti della contemporaneità musicale, come il rapper Jay Z e l’hiphopper canadese Drake. Di fatto, una bella, vecchia casa, ristrutturata con materiali nuovi. Wynton Marsalis – Eric Clapton
Play the blues
(Reprise)
Se Lenny Kravitz parla di un’America in bianco e nero, Wynton Marsalis ed Eric Clapton l’hanno messa in pratica, incrociando i loro strumenti in tre magiche serate al Lincoln Center di New York, lo scorso aprile. “Play the blues” è il sintetico titolo dell’album (+ Dvd), pubblicato in questi giorni,che racchiude le registrazioni di quei concerti.
Da un lato un virtuoso trombettista, jazzista ortodosso ed erede (sempre che qualcuno possa esserlo) dell’inarrivabile Miles Davis, dall’altro Eric “Slowhand” Clapton, 65enne bluesman inglese.
A prescindere dal diverso colore della pelle, sono entrambi esponenti di musiche nere. Vicine e distanti. Affini e dicotomiche. Tanto prevedibile il blues, nelle suoi riff ripetitivi e dolenti, quanto imprevedibile il jazz, che affida all’improvvisazione la sua ragion d’essere.
Eppure, e questa è la grandezza dell’arte, ne viene fuori un magico suono d’altri tempi, quello della New Orleans degli anni ’20, con le big band e le orchestrine che swingavano in ogni angolo della città. Marsalis ha detto che lui e Clapton condividono un’eredità, che “ingloba le gighe irlandesi e la tradizione dell’Africa occidentale, gli inni inglesi e gli spiritual, il tutto sintetizzato in una forma trascendente: il blues”. Che, nelle mani di due musicisti di questo calibro, diventa una specie di pongo, malleabile a piacere, per ottenerne la forma voluta. Forma e contenuto, in questo caso, perché il risultato e “lussuoso”, impreziosito anche dal contributo, in alcuni brani, del vecchio bluesman Taj Mahal. Perfino il classico dei classici di Clapton, “Layla”, diventa un’altra cosa. Ma è sempre un bel sentire.