Musica - i consigli della settimana


Stampa

Storie di fantasmi e dialoghi con Gesù

Un musical dark per John Mellencamp e oscuri scricchiolii per Mark Lanegan

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)


AA.VV: - The ghost brothers of a darkland county (Hear music)

Una storia oscura, che rievoca vecchie leggende, scoperchia bauli polverosi, rimuove ragnatele decennali. Una storia di fantasmi, quelli di due fratelli che si contendono la stessa donna, uno dei quali muore in un redde rationem alla Caino ed Abele, e l’altro si schianta contro un albero con la ragazza mentre torna in città. Ce n’è quanto basta per attizzare la curiosità di un maestro dell’horror come Stephen King, opportunamente sollecitato da John Mellencamp, che a sua volta aveva appreso la storia da un vecchio vicino di casa. “In quel capanno ci sono i fantasmi…”, e via col racconto. Due fratelli che si odiano vengono portati in vacanza in un capanno dove anni prima altri due fratelli, quelli del padre, si sono ammazzati. Mellencamp coinvolge King che scrive tout court una black novel di 60 pagine. Da qui parte l’idea di un musical, che ci metterà dodici anni per vedere la luce. A King la storia, a Mellencamp la musica, e al più raffinato dei produttori, T-Bone Burnett, il compito di confezionare il tutto. Nel cd c’è la colonna sonora del musical , composta da 17 canzoni, alternate con una serie di dialoghi originali. Per chi vuole evitare il parlato, nel cd viene fornito il codice per scaricare la sola musica. La storia , degna delle “Murder ballads” di Nick Cave, è di quelle che fanno drizzare il pelo ai gatti. Roba gotico-dark, oscure presenze, polvere, ragnatele, scricchiolii di porte con i cardini arrugginiti, refoli vento che accarezzano il collo. C’è il male, in fondo al cuore di ognuno, tenuto a freno dall’educazione, dalla religione, dalle leggi, dalle buone maniere. Ma ogni tanto trova il modo per evadere, e fa danni. A raccontare il diavolo che abita nell’animo dei suoi fratelli è Joe, il minore, interpretato da Kris Kristofferson, che nel musical è affiancato anche da due attori veri, Meg Ryan (che peraltro è la signora Mellencamp, e Matthew Mcconaughey . Gli altri interpreti (canori) sono Elvis Costello, che dà voce al diavolo in That’s Me”, i fratelli Dave e Phil Alvin (Blasters), che si immedesimano assai in “So goddamn smart” e in “Home Again”, il vecchio bluesman Taj Mahal, e Sheryl Crow, la vera regina dell’album, che partecipa in ben 7 brani. Mellencamp ne rimane quasi fuori, mette il suo tocco riconoscibile solo in “Truth”. T-Bone Burnett produce con estrema eleganza, lavora di fino, riuscendo ad alleggerire il peso della storia con sottrazioni strumentali, così da alleggerire il peso di un’atmosfera troppo pesante. Ergo, gran bel disco, che si regge da solo anche senza il contesto teatrale. La musica: roots, folk, blues, più invenzioni estemporanee.


Mark Lanegan & Duke Garwood -The black pudding (Ipecac Recordings)

Quanto ad atmosfere cupe, anche Mark Lanegan non si fa mancare niente. Già l’anno scorso ci aveva deliziato (non in senso ironico) con il suo “Blues Funeral”, adesso ci riprova con “Black Pudding”, e anche qui Stephen King ci andrebbe a nozze. Già il titolo evoca quella famosa ”delizia” della cucina inglese, in questo caso a base di sangue e cereali, che per i mediterranei equivale all’esistenza del Diavolo. Anche qui, come in “Ghost brothers”, atmosfere cupe, risvolti esistenziali drammatici, introspezione profonda nei più oscuri recessi della mente. L’opera si apre con un paio di strumentali, la titletrack e “Pentecostal”, disegnati in trasparenza, che fanno temere il peggio. Poi entra in scena la voce impastata di catrame e bourbon di Lanegan, che da buon salmodiatore disegna paesaggi duri, fa filtrare la luce della brughiera e rimugina sulle sue ossessioni. Dialoga con Gesù Cristo, evoca visioni apocalittiche e post belliche (“War memorial”, “disertori appesi ad un albero”) e, perché no?, mistiche (“Shade of the sun”) . Musica straniata, disadorna, rarefatta, suonata sotto “cieli sanguinanti” dal fido compagno di viaggio Duke Garwood, chitarrista alla Ry Cooder, che pizzica elegantemente le corde in “Death rides on a white horse” (“La morte cavalca un cavallo bianco”), titolo che è tutto un programma. I brani (non tutti, ma abbastanza) sono struggenti, evocano rantolii di città fantasma, e suggeriscono atmosfere post-apocalittiche alla Corman McCarthy. Alla fine, rimangono solo rovine, e sono quelle del nostro cuore. Il corpo giace in un campo di battaglia, il pasticcio di carne e sangue, il “Black Pudding”, sta lì a testimoniarlo.