Musica - i consigli della settimana


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Tale padre, tale figlio

Nuovi cd per Cristiano De André e Laura Mvula

di Maurizio Iorio
(maurizio.iorio@rai.it)

Cristiano De André – Come in cielo così in guerra (Universal)

Essere figlio di Fabrizio De Andrè è come essere figlio di Einstein. Per quanti sforzi uno possa fare, l’ombra paterna starà sempre lì a vanificare le erculee fatiche per l’affrancamento. E’ come cercare di liberarsi da una piovra, c’è sempre qualche tentacolo che ti rimane avvinghiato e non ti lascia andare. A meno che uno non abbia il cuore corazzato al carbonio e la spada di titanio. Ma ancora non è arrivata notizia di figli che abbiano superato i padri. L’impietoso confronto che tutti si ostinano ancora a fare, fra De André padre e De André figlio è, per l’appunto, impietoso. Non per la pochezza del pargolo, da qualche anno anche prodigo, ma per l’inarrivabile grandezza del padre. Ergo, diamo a Cesare quel che è di Cesare. Cristiano De Andrè è un signor musicista, dal talento cristallino ed ancora parzialmente inespresso. Non è un caso che fra “Come in cielo così in guerra” e il precedente “Un giorno nuovo” siano passati dieci anni, molti dei quali trascorsi fra sofferenze e macerazioni interiori, fino a quando Cristiano non ha deciso di tagliare il cordone ombelicale per smitizzare il suo (e il nostro) mito: Ha portato in tour le canzoni del padre, essendo peraltro l’unico autorizzato a farlo (oltre alla Pfm). Grande successo, l’eredità non poteva finire in mani migliori. Volati via i demoni, l’anima si è fatta leggera. Si dice che le colpe dei padri ricadano sui figli, e la colpa di Faber è stata quella di essere troppo grande, e di pesare troppo su spalle non larghe a sufficienza. Adesso che il bambino è cresciuto, ha conquistato la posizione eretta (per dirla con Francesco Di Giacomo e soci), e può guardarsi allo specchio a fronte alta. “Come in cielo così in guerra” è un piccolo gioiello, realizzato a Berkeley, in California, e prodotto da un marpione della console come Corrado Rustici, deus ex-machina dei migliori anni di Zucchero. Cristiano De Andrè segue il solco tracciato da Faber e non comunica allegria, né felicità. In queste dieci canzoni c’è inquietudine, rabbia, invettiva, denuncia, disillusione. Tutti condannati al girone più profondo dell’inferno: politici, banche, media, santa madre Chiesa, colpevole come e più di altri:”Tu che la Cei, lo Ior, l’Opus Dei/ ci mostri come sei”, (in “Credici”). L’anima anarchica di Cristiano De André graffia rabbiosa sulla patina dei disvalori del nostro tempo, in primis il denaro, che “è un mezzo, ed è stato trasformato in un valore”. Sotto la superficie lucida ci sono i disonesti, i furbetti, le caste, i politici corrotti, i parassiti di ogni risma, che infettano le ferite di una società moribonda. Ci sono squarci autobiografici (“Disegni nel vento”, lasciare che i figli siano liberi di seguire i propri sogni. “Ingenuo e romantico”, digressioni sull’amore. “Sangue del mio sangue” , sul legame con i figli), che raccontano di una esistenza dolente e di un’anima macerata. Ma è sul piano sociale che il giovane (o quasi, 50 anni) mena i fendenti più duri, puntando il dito contro una società sottomessa alla cultura mediatica, che ci sta facendo sprofondare in un nuovo Medioevo (date un’occhiata a “Medioevo prossimo venturo” di Roberto Vacca), dove si respira solo aria da basso impero. La sottocultura mediatica e dell’apparire ha dato vita a nuove forme di meretricio, dove ci sono donne disposte a vendersi per una comparsata televisiva o per una griffe da indossare (“La bambola della discarica” ). Non è meretricio da fame, ma da fama. Per questo, forse, il testo della canzone è recitato, avvolto da un accompagnamento orchestrale. Potrebbe essere la colonna sonora de “La strada” di Corman McCarthy (il film omonimo, tratto dal libro, è di John Hillcoat). “Come in cielo così in guerra” è un album nichilista, plumbeo, in linea con i tempi: nessuna salvezza senza redenzione. Eppure è arioso, celeste, suonato benissimo, con arrangiamenti delicati e sagomati su un andamento ritmico che comunica allegria, alla faccia del pessimismo cosmico. Non è un caso, ad esempio, il recupero di “Le vent nous portera”, il brano più famoso dei Noir Desir, la band francese di Bertrand Cantat, che nel 2003 uccise la sua compagna Marie Trintignant, figlia del più famoso Jean Louis. Brano in qualche modo maledetto, ma dall’andamento sinusoidale, avvolgente, rassicurante. Siamo sull’orlo del baratro, ma almeno ai colpevoli i profeti di sventura gliele (e ce le ) cantano.

Laura Mvula – Sing to the moon (Sony Music)

Venticinque anni, da Birmingham, Inghilterra, black, così nessuno si offende. Questa è la carta d’identità di Laura Mvula, che lo showbiz inglese ha già infilato nel tritacarne mediatico. La nuova promessa del pop-soul, Amy Winehouse 2.0 . Questa la fama che già la precede. Facendo la dovuta tara, e riducendo le aspettative, la prospettiva diventa assai più realistica. La giovincella cantava nei cori gospel della sua città fino all’anno scorso. Dove qualche talent-scout dall’occhio fino l’ha scovata e fiondata nel mondo delle musiche. Definire pop “Sing to the moon” è come dare del guerrafondaio a Gandhi. Laura Mvula trascende le categorie, mescola i generi, armonizza, vola sui cori, ripesca Nina Simone, scampanella alla Mary Poppins, canta la ninna nanna ai bambini con il carillon, entra nel mondo vintage con atmosfere Sixty, costruisce ambienti onirici, usa strumenti come il contrabbasso, l’arpa, i campanellini, i vocalizzi da cartoon, si fa avvolgere da enfasi orchestrali, gestisce un gospel doo wop con tanto di claphands (“Green Garden”) , sorvola le umane miserie con leggerezza celeste. Insomma, difficile chiamarlo pop. Alcuni brani (“Can’t live with the world”) non sono proprio da fischiettare sotto la doccia. Ma tutto il lavoro ha una sua coerenza, è pieno di piccoli manufatti incastrati l’uno con l’altro come in un mosaico, dove il disegno complessivo si vede solo dopo aver piazzato l’ultimo tassello. Musica raffinata (la ragazza è diplomata al conservatorio), complicata da partiture orchestrali che ne spostano l’asse verso territori cosiddetti crossover, nient’affatto pop.