L’Acmid , presente su gran parte del territorio nazionale, lavora da oltre dieci anni nello sviluppo delle relazioni interculturali, nella tutela dei diritti umani e delle donne in particolare. Ci sono dei dati sulla presenza delle donne musulmane in Italia? Sono circa 550 mila, ci dice Souad Sbai, parlando di donne di religione islamica e non solo di immigrate.
Per quante di loro l’uso del velo islamico è legato a una prescrizione religiosa, per quante è una scelta volontaria?
Per la maggioranza è un obbligo, imposto dai mariti e dai padri. Le donne che portano il velo per scelta sono una piccola minoranza. In genere, si tratta di donne di una certa età per le quali è naturale averlo. Non è così per le ragazze che, in Francia, in Belgio, in alcune zone, se non lo indossano sono maltrattate o insultate. Questo da noi, per fortuna, succede solo da alcune parti al Nord, anche grazie a una nostra campagna d’informazione. Qui lo portano in poche, ma c’è da dire che siamo un’immigrazione giovane. In Inghilterra, per esempio, dove ci sono diverse generazioni d’immigrati, sono in molte ad usarlo. E io non vorrei che arrivassimo ai loro livelli.
Perché, secondo lei, nelle generazioni successive c’è un ritorno al velo islamico? E’ una ricerca d’identità?
No. E’ un obbligo. Lo impongono i padri alle figlie intorno ai 16 anni, anche per allontanarle un po’ dagli italiani. Le ragazze magari affermano di indossare il velo per libera scelta, ma quella è solo una difesa, di fronte ai loro coetanei non direbbero mai “se non lo porto, mio padre mi picchia”. Questa è la realtà di tante ragazze. Noto però anche il risveglio di alcune che lo tolgono e dicono “non lo voglio portare”. Bisogna dar loro coraggio, parlarne molto, sensibilizzare tutti su questa questione. Spesso, quando queste adolescenti tornano in Marocco per le vacanze, vedono che le loro coetanee non lo portano. In Marocco, in Algeria, c’è una fortissima campagna contro il burqa.
Ritiene, quindi, che non ci sia alcun fondamento religioso nell’uso del velo integrale?
Non c’è. Alcuni studiosi dal Marocco, all’Egitto, all’Arabia Saudita dicono che il burqa e il niqab non c’entrano con la religione. In alcune università di quei Paesi sono stati proibiti. Un versetto del Corano invita le donne a coprire più che altro il seno, con un foulard, ma non la testa. E’ chiaro che se lo leggo io, do la mia interpretazione, se lo legge un estremista dà la sua.
Disciplinare questa materia per legge non potrebbe radicalizzare le posizioni?
No. Il diritto fa tradizione. In Italia è accaduto per il delitto d’onore. Se passa il messaggio culturale che il burqa si può indossare, saranno sempre di più a portarlo. Certo, sarebbe meglio un processo culturale, ma l’estremismo è più veloce. Dietro il burqa c’è un’umanità violata, la donna è completamente annullata nella sua personalità. Attira inoltre molta più attenzione e può generare un senso di paura. A queste donne bisogna dare le stesse opportunità di vita e di diritti di tutte le altre.